Usa, paghe ridotte agli obesi «Troppi costi per le aziende»

NEW YORK — Lo stipendio ridotto perché sale il colesterolo, perché si ingrassa, perché il lavoratore rifiuta di sottoporsi a un test clinico. O, addirittura, licenziati perché si fuma: non sul posto di lavoro, ma a casa. L’incubo notturno di un sindacalista con l’esaurimento nervoso? No, è quello che comincia ad accadere in alcune aziende americane, stufe di pagare assicurazioni sanitarie sempre più costose per i loro dipendenti: il conto delle mutue private è pressoché raddoppiato dall’inizio del decennio ed è molto più salato quando i dipendenti assicurati sono fumatori od obesi, una condizione che li espone alle malattie cardiocircolatorie e al diabete. Che negli Usa quella contro le sigarette sia diventata una vera e propria crociata non è una novità. Da qualche tempo si sta cercando di correre ai ripari anche contro l’impressionante epidemia di obesità: ormai due terzi degli americani sono soprappeso, mentre oltre il 30 per cento dei cittadini ha una massa corporea che li colloca nella categoria degli obesi. La progressione è continua e, apparentemente, inarrestabile: nel 2015, secondo uno studio appena pubblicato dalla John Hopkins University, le persone con 10 o 15 chili di ciccia in più saliranno al 75 per cento, mentre gli obesi saliranno a quota 41 per cento. Le cause sono molteplici: stili di vita sedentari, pasti ricchi di grassi e zuccheri, la diffusione dei cibi industriali, la tendenza a pranzare nelle friggitorie e nei fast food, mentre quasi nessuno cucina a casa.

È un’impressionante epidemia che rischia di trasformare gli americani in un popolo di invalidi. Le imprese, che in genere forniscono ai loro dipendenti la copertura sanitaria che in Europa è garantita dallo Stato, devono vedersela con l’aspetto economico di questa epidemia: i costi sempre più elevati delle polizze assicurative.

Un’azienda di fertilizzanti, la Scotts, sta licenziando dipendenti che, in base ai test, hanno nicotina nel sangue.
La Clarian, nell’Indiana, decurterà di 30 dollari ogni due settimane lo stipendio di chi non rientra in determinati parametri di peso e colesterolo
«Quando sono entrato in questa azienda — notava tempo fa il capo della General Motors, Rick Wagoner — l’ho fatto perché volevo occuparmi di auto e camion. Non immaginavo che sarei diventato un amministratore della spesa sanitaria». In effetti i soli costi sanitari incidono per oltre 1.500 dollari su ogni auto venduta dalla GM. Che l’anno scorso ha attuato una prima stretta in questo campo e ne ha annunciata un’altra ai sindacati per il prossimo autunno.

Se l’azienda di Detroit negozia, comunque, tutto con le «unions», molti altri fanno da soli perché negli Usa il mercato del lavoro è generalmente molto libero e in numerosi Stati si può licenziare senza dare alcuna spiegazione. Si tratta, sia chiaro, di casi per ora limitati: in un Paese che è praticamente alla piena occupazione, in genere le aziende si tengono stretti i loro dipendenti. Ed anche il problema dell’obesità — che per le aziende rappresenta un costo aggiuntivo non solo dal punto di vista assicurativo, ma anche da quello della maggior vulnerabilità dei dipendenti alle malattie e della loro minor efficienza fisica — è stato fin qui affrontato soprattutto cercando d’incentivare i comportamenti salutari: premi per chi segue un programma di fitness, palestre gratis in fabbrica, verdura e frutta gratis nelle mense aziendali, incentivi monetari per chi si impegna a seguire un programma di dimagrimento o, semplicemente, accetta di sottoporsi periodicamente a delle analisi cliniche.

I risultati di questa strategia sono però stati, fin qui, piuttosto scarsi. Così alcuni hanno deciso che è giunto il momento di passare «dalla carota al bastone». La Scotts, un’azienda che produce fertilizzanti, ha cominciato a licenziare i dipendenti che fumano: non quelli sorpresi in ufficio con la sigaretta in bocca, ma quelli che, in base ai test, risultano avere nicotina nel sangue. Anche la Weyco, una società del Michigan, ha cominciato a licenziare i fumatori sulla base delle sue linee-guida «no-smoking» fissate nel 2003. I dipendenti devono sottoporsi periodicamente a un test. Se si rifiutano, il loro contributo all’acquisto della polizza sanitaria sale di 65 dollari al mese (185 nel caso di un’intera famiglia coperta dall’assicurazione aziendale). C’è poi il caso della Clarian, un’azienda dell’Indiana: ha deciso che, a partire dal 2009, i dipendenti che non rientreranno entro certi parametri in termini di peso, livelli di colesterolo e pressione del sangue, si vedranno decurtare la retribuzione di 30 dollari ogni due settimane (10 per ogni test «fallito»).

Casi che hanno ovviamente suscitato una valanga di proteste: «Queste sono scelte paternalistiche, illiberali, senza rispetto per la privacy dei dipendenti» dice Jeremy Gruber, direttore del Centro per i Diritti dei Lavoratori, un istituto che ha sede nel New Jersey. E il suo presidente, Lewis Maltby, si chiede, in un’intervista alla Cnn: «Fumare non è l’unico stile di vita che incide sulla salute. Verremo penalizzati anche perché andiamo a sciare, mangiamo da McDonald’s o facciamo sesso non protetto? ». Di questo passo — è la critica più diffusa — la tutela della salute si trasformerà in una sorta di stato di polizia. Chi potrà contenere l’ingerenza nella vita privata dei dipendenti? «E anche sui test clinici — denuncia Peter Handal, capo della Dale Carnegie Training — è difficile fissare un limite: prelevo il sangue del dipendente per sapere se fuma, ma posso anche utilizzarlo per test clinici coi quali cerco di capire chi è più vulnerabile alle patologie invalidanti o al cancro».

Le aziende che hanno scelto la linea dura con fumatori e obesi sanno di essere una sparuta minoranza: in fin dei conti solo il 5 per cento dei datori di lavoro impone contributi aggiuntivi ai dipendenti che fumano. E la sigaretta è ancora tollerata — nelle aree specifiche riservate ai fumatori — dal 72 per cento delle imprese, mentre il 19 per cento ha adottato una politica no smoking.

Vanno, però, per la loro strada perché non stanno violando alcuna legge, ma soprattutto perché sono convinte che la rapida crescita dei costi sanitari spingerà presto molti altri datori di lavoro a fare scelte analoghe. Non c’è dubbio che quella che si sta delineando è una discriminazione nei confronti di persone che possono essere predisposte geneticamente all’obesità indipendentemente dai loro costumi alimentari.

Ma la tentazione di penalizzare i lavoratori con problemi di salute è fortissima per aziende che pagano polizze sanitarie sempre più salate: il 62 per cento dei 135 top-manager che hanno risposto ad un recente sondaggio della PricewaterhouseCoopers ritiene giusto far pagare contributi più elevati ai fumatori o ai dipendenti obesi dalle abitudini poco salutari.

Massimo Gaggi
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