L’obesità è contagiosa

Fonte: http://blog.panorama.it/

E se fosse contagiosa? Se la tendenza a ingrassare, invece che solo colpa della gola, della pigrizia, o di un metabolismo poco brillante, si trasmettesse da una persona all’altra come il raffreddore? Non si parla soltanto del fatto, venuto alla luce di recente, che la gente ingrassa a gruppi nel corso della vita, e dunque la ciccia sembra espandersi come un morbo epidemico attraverso le reti sociali. No, potrebbero proprio essere dei microbi a far mettere su peso.

Negli ultimi anni si stanno accumulando gli indizi che indicano in alcune specie di batteri che popolano il nostro intestino, parenti dei vari bifidobatteri e lattobacilli veicolati nel nostro corpo dagli yogurt, possibili colpevoli (oltre al troppo cibo e al poco esercizio fisico) dell’epidemia di obesità. E questa teoria, per quanto sembri stravagante, viene guardata con interesse dagli addetti ai lavori. Dopotutto, se davvero responsabili, anche solo in parte, del grasso di troppo fossero i microbi, sembrerebbe più semplice la soluzione di un problema ormai considerato una vera e propria piaga del mondo globalizzato. Tanto per rimanere in Italia, proprio nelle scorse settimane è stato presentato un disegno di legge che prevede modifiche alle norme di progettazione di edifici pubblici e mezzi di trasporto in modo che non costituiscano una barriera architettonica per le persone gravemente obese.

Ma chi sono gli indiziati? E com’è nato il sospetto che proprio certi microbi abbiano a che fare con la ciccia? Una premessa va fatta: nel nostro organismo ci sono miliardi di batteri. A ben vedere, di tutte le cellule del corpo, solo una su dieci è umana. Il resto è costituito da miliardi di microbi che risiedono in larga parte nell’intestino.

La rivista Nature ha appena dedicato la copertina alla mappatura del genoma dei batteri che ci portiamo addosso: 150 volte più ampio del nostro. Questa brulicante folla, chiamata microflora intestinale, svolge svariate funzioni: produce vitamine e gli enzimi necessari per metabolizzare certi zuccheri, interagisce con il sistema immunitario, aiuta a estrarre le calorie dal cibo ingerito. In ultima analisi a determinare se siamo più magri o più grassi.

Solo da pochi anni, grazie a nuove tecniche di indagine molecolare, è stato possibile condurre un censimento delle specie che abitano i nostri visceri e sequenziare i loro geni. «Oggi sappiamo che questa microflora è formata da oltre 1.000 specie batteriche, molto variabili da una persona all’altra» spiega Marco Ventura, professore all’Università di Parma che studia la genetica di questi microrganismi.

Jeffrey Gordon e Peter Turnbaug, due ricercatori americani che hanno partecipato ai primi studi sul sequenziamento genetico della microflora intestinale, avevano fatto una curiosa osservazione: i topi allevati in ambiente sterile, quindi privi di batteri intestinali, pur mangiando voracemente avevano il 60 per cento in meno di grasso dei loro compagni normali. Sembrava che non assimilassero il cibo. Ma se i batteri intestinali di topi normali venivano trasferiti nell’intestino di quelli che ne erano privi, anche loro nel giro di due settimane acquistavano la stessa ciccia degli altri.

Approfondendo il sorprendente legame microbi-obesità il gruppo di Gordon ha confrontato la flora intestinale di topi normali e di animali con un gene modificato che li rende obesi. Scoprendo che, delle due grandi popolazioni di batteri che vivono nell’intestino, negli animali obesi prevalevano quelli chiamati firmicuti e scarseggiavano i cosiddetti batterioidi; nei topi magri l’inverso. Qualcosa di simile, ha poi verificato Gordon, accade negli esseri umani: nell’intestino di coppie di gemelli di peso normale o in carne c’è una differente proporzione delle specie di batteri.

Prima di avere la prova definitiva che certi tipi di microbi vanno a braccetto con l’obesià (servirebbero volontari disposti a farsi trapiantare nell’intestino i batteri di qualcun altro) Gordon si è cimentato in un esperimento fattibile. I batteri di origine umana sono stati inseriti nell’intestino di topi privi di microflora, poi sottoposti a vari tipi di dieta. Anche con un regime dietetico normale questi topi avevano una massa grassa superiore ai loro compagni non contaminati. Ma, soprattutto, pochi giorni di alimentazione occidentale, ricca di grassi e zuccheri, li hanno trasformati in animali obesi. E se la loro flora veniva passata a topi che seguivano una dieta normale, anche questi ingrassavano.

Ora, se questi risultati verranno confermati, dimostrando di essere validi anche per l’uomo, la prima questione sarà: i batteri sono causa o conseguenza dell’obesità? Sono cioè le particolari specie di batteri a determinare se una persona accumula grasso, oppure il fatto di essere sovrappeso determina quali tipi di batteri predominano nell’intestino?

Le prime risposte ci sono. I microbi sembrerebbero proprio la causa. Uno studio su Science suggerisce che i microbi potrebbero essere in parte responsabili della sindrome metabolica, un insieme di problemi legati all’obesità che aumenta il rischio di diabete e malattie cardiovascolari. «Sicuramente un certo tipo di flora batterica gioca un ruolo importante nell’assorbimento di energia e quindi nell’accumulo di grasso» aggiunge Renzo Caprilli, ordinario di gastroenterologia alla Sapienza di Roma. Si ipotizza anche per quale strada agiscano. «Questi batteri riescono a recuperare energia riciclando gli zuccheri sfuggiti alla digestione da parte degli enzimi intestinali» dice Caprilli. In tal modo spremono fino all’ultima goccia le calorie dai cibi, inducendo l’organismo ad accumularle sotto forma di grasso.

Una strategia che ha perfettamente senso da un punto di vista evolutivo. «Quando il cibo era scarso, questi batteri potevano essere utili alleati dell’uomo. Oggi che, per gran parte della popolazione mondiale c’è fin troppo cibo rispetto alle esigenze del metabolismo, si sono trasformati in ospiti sgraditi» spiega Giovanni Cizza, ricercatore di endocrinologia clinica ai National institutes of health, negli Stati Uniti.

Ci sono due foto che Cizza mostra nei suoi interventi ai convegni per spiegare il concetto: quella del leader apache Geronimo, asciutto e fiero, nel 1887, e del pronipote Robert Geronimo, nella stessa posa con il fucile, ma decisamente appesantito, ai giorni nostri.

Se davvero i microbi intestinali risultassero fra i colpevoli, anche la lotta al grasso dovrebbe cambiare strategie. Immaginare scenari non è difficile. «In teoria, in base al tipo di batteri che predominano nell’intestino, identificabili con tecniche molecolari, si potrebbero avere indicatori che segnalano se una persona sta andando incontro all’obesità» ipotizza Ventura. Del resto, sono diverse le malattie in cui si sono viste alterazioni della flora batterica: patologie infiammatorie dell’intestino (per esempio il morbo di Crohn) e altre in apparenza del tutto slegate dal sistema digestivo, come le allergie.

Ma soprattutto si potrebbe pensare a una cura a base di somministrazione di batteri buoni, o di eliminazione di quelli cattivi. Nel suo laboratorio all’Università di Parma, e prima ancora in Irlanda all’Università di Cork, Ventura studia proprio come sfruttare gli effetti salutistici di questi microrganismi partendo dall’analisi della loro genetica, un approccio che ha battezzato probiogenomica. «Alcuni organismi, come i bifidobatteri, che sono dominanti in neonati e adolescenti e poi si riducono, sembrano in grado di contrastare l’obesità» sostiene Ventura.

Una cosa però è la teoria, un’altra la pratica. «Ci sono problemi enormi da superare. La flora batterica si trova prevalentemente nel colon destro. Bisogna che i batteri somministrati per bocca arrivino laggiù, e che ci arrivino vivi, superando l’acidità dello stomaco» avverte Caprilli.

Una strada difficile. Ma sulla quale, se le ricerche verranno confermate, c’è da scommettere che saranno ben lieti di buttarsi industrie farmaceutiche e produttori di probiotici.

Chiara Palmerini

 

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Il cibo spazzatura crea dipendenza

Sarà capitato sicuramente a tutti, magari al termine di una giornata lavorativa molto faticosa oppure in un momento di forte ansia, di cedere all’irresistibile tentazione di divorare qualsiasi “schifezza” che ci capiti a tiro. Molto spesso è proprio la nostra mente che ci spinge a rimpinzarci di vere e proprie bombe caloriche grondanti grassi e zuccheri.

Ed è proprio dai nostri meccanismi cerebrali che si scatena una sorta di frenesia divoratrice che può essere del tutto paragonata a ciò che succede a chi soffre di altre forme di dipendenza, quali ad esempio il fumo o la droga. Questa è la conclusione a cui è giunta la ricerca statunitense recentemente pubblicata dalla nota rivista di settore Nature Neuroscience e condotta dai ricercatori Paul Johnson e Paul Kenny nell’Istituto Scripps di Jupiter, in Florida.

Nello specifico, gli studiosi hanno osservato e testato il fenomeno di dipendenza dal cosiddetto “junk food” su dei ratti da laboratorio introducendo nella loro alimentazione usuale, composta per lo più da cibi leggeri e sani, dei gustosi snack a base di salsicce, bacon, dolci vari e cioccolato. Pare proprio che gli animali abbiano accettato di buon grado questa piacevole variazione della loro dieta con una conseguente assunzione di eccessive calorie ed un crescente aumento di peso.

La ricerca ha messo in evidenza il fatto che, dopo un breve lasso di tempo, i ratti non erano più in grado di avvertire il senso di sazietà e continuavano dunque ad ingerire alimenti grassi anche quando non era indispensabile. Tutto ciò pare sia indotto dalla modificazione dei cosiddetti “circuiti di ricompensa” ovvero le aree del cervello che regolano la produzione della dopamina (sostanza chimica che attiva dei recettori specifici e trasmette gli impulsi dell‘appagamento). Normalmente questi circuiti cerebrali vengono sollecitati e si attivano prontamente ogniqualvolta si stia vivendo una situazione positiva; dunque l’affievolimento dei suddetti meccanismi riscontrato nei ratti alimentati con i cibi spazzatura pare del tutto assimilabile a ciò che accade nella dipendenza da fumo e droga.

Per ripristinare una condizione di assoluta normalità nei circuiti di ricompensa degli animali sono trascorse ben due settimane dalla sospensione degli snack ipercalorici. La Coldiretti ha commentato questi risultati fornendo delle percentuali sull‘alimentazione scorretta dei bambini italiani alquanto preoccupanti: ben il 41% consuma giornalmente bevande ricche di zucchero e privilegia i cibi grassi anziché la frutta e la verdura. Se si correggessero le abitudini alimentari seguendo una sana dieta mediterranea non si soffrirebbe di vere e proprie crisi d’astinenza da junk food.

 
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Karl Lagerfeld: grasso non è bello

Leggendo questo titiolo mi sono detta: bè credo che Karl Lagerfeld non sarebbe bello né magro né grasso… Comunque sarà stato sincero ma ha anche dimostrato una ignoranza e un pressapochismo stratosferici.. “Madri grasse che mangiano patataine davanti alla TV”? Ma in che mondo vive? Ah si, nel mondo della moda, il mondo della falsità e dell’apparenza per eccellenza….”Nessuno vuole vedere donne rotonde”? Nessuno o lui? Bisogna ricordare che per secoli si sono ritratte e scolpite dee cellulitiche? Bisogna credere allora alla diceria che le modelle sono magre perché molti stilisti sono gay e quindi scelgono donne androgine?

Ecco l’iniziativa tedesca che ha provocato la riprovazione di Karl (e chi se ne frega!) http://www.brigitte.de/mode/ohne-models/ohne-models-uebersicht-1038857/

Ecco l’articolo tratto da http://dellamoda.it/

Evviva la sincerità. A Karl Lagerfeld le modelle piacciono magre: lo ha dichiarato apertamente lo stilista di Chanel e Fendi, scagliandosi – in un’intervista al giornale Focus – contro le “madri grasse che si siedono davanti al televisore con i loro pacchetti di patatine e dicono che le modelle magre sono brutte. Il mondo della moda è fatto di sogni e illusioni e nessuno vuole vedere donne rotonde”.

Così Lagerfeld ha spiegato l’ossessione dei media nei confronti del fenomeno anoressia tra le modelle, definendolo come una montatura per vendere più giornali. Per rinforzare la sua tesi, lo stilista ha anche aggiunto che in Francia, per esempio, è più alta la percentuale di disturbi di salute legati all’obesità piuttosto che all’anoressia.

La questione è stata scatenata dalla decisione della rivista di moda tedesca Brigitte di usare donne comuni come modelle da copertina proprio per combattere il complesso di inferiorità nei confronti delle modelle.
Una decisione che Karl ha ritenuto “assurda’.

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Incredibile!!!!!! gli obesi sono pessimisti e con scarsa autostima!!!!!!

Per gli ottimisti dimagrire è più difficile, sovrappeso e obesità non li preoccupano

Fonte: www.adnkronos.com

Affrontare la vita col sorriso non mette al riparo dai problemi, specie se si tratta di perdere i chili di troppo. Per chi è troppo ottimista, infatti, dimagrire può diventare molto più difficile. Un team di ricercatori giapponesi lo ha scoperto attraverso a uno studio pubblicato su ‘BioPsychoSocial Medicine’, che rivela come le caratteristiche psicologiche possano influire sulla perdita di peso. Il team di Hitomi Saito della Doshisha University ha esaminato il profilo psicologico di 101 obesi sottoposti a un programma che prevedeva counselling, dieta mirata e attività fisica presso il Kansai Medical University Hospital Obesity Clinic per 6 mesi.

Un lavoro che ha comportato anche il monitoraggio – attraverso questionari – dei pazienti selezionati, sia prima che dopo il soggiorno in clinica, per avere un quadro preciso della loro personalità e di eventuali variazioni. Ebbene, si è visto che i pazienti in grado di migliorare la propria autoconsapevolezza attraverso il counselling sono risultati più inclini a perdere peso rispetto agli altri. L’ottimismo e l’attenzione verso se stessi sono migliorati per molti pazienti nel corso del programma, anche se questo non ha comportato la perdita di peso. Anzi, i pazienti che erano entrati in clinica più ottimisti e sicuri di sé sono riusciti a dimagrire meno degli altri.

I risultati suggeriscono che qualche emozione negativa ha un effetto positivo sulle modificazioni del comportamento, perché i pazienti sono più attenti al loro problema. In generale, comunque, l’iniezione di ottimismo sperimentata da molti pazienti in cura non è stata necessariamente negativa, dal momento che aiuta i pazienti a rispettare il corretto stile di vita impostato in clinica. “E’ importante potenziare l’autocontrollo e l’attenzione verso sé stessi, per ridurre lo stress psicologico e conservare la nuova taglia”, scrivono i ricercatori.

Con poca autostima da piccoli si diventa obesi da grandi

Fonte:http://italiasalute.leonardo.it/

Si diventa più facilmente obesi da grandi se da piccoli si nutriva una scarsa autostima e non si aveva un’immagine positiva di sé, del proprio corpo e delle proprie capacità e qualità.
Questo è quanto afferma una ricerca inglese, precisamente del King’s College di Londra, che negli anni Settanta aveva cominciato a monitorare 6500 bambini che allora avevano dieci anni, seguendoli poi per i vent’anni successivi.
Grazie a questo screening, i ricercatori hanno potuto constatare come quei bambini che avevano scarsa stima e considerazione di sé nell’età dello sviluppo, erano più propensi al sovrappeso e all’obesità da adulti. Gli studiosi hanno tratto questa conclusione in base alla registrazione nell’arco di vent’anni dei dati riguardanti i soggetti del campione: queste informazioni riguardavano il peso, l’altezza e la valutazione psicologica degli individui studiati.
I risultati di questa ricerca britannica sono stati recentemente pubblicati sul periodico “BMC Medicine” e provano che non sono solo il metabolismo e le cattive abitudini alimentari le cause dell’obesità, ma anche la scarsa autostima e i fattori psicologici.
L’aumento di peso è favorito da una crescita e da un’adolescenza difficili, caratterizzate da paure, eccessiva emotività, scarsa capacità di stare bene con se stessi e con gli altri.
Normalmente sono la famiglia e gli amici veri che possono aiutare un ragazzo o una ragazza a scoprire le proprie qualità, a volersi più bene e ad adottare uno stile di vita sano. Tuttavia la società tecnologica degli ultimi 50-70 anni ha prodotto l’isolamento degli individui e la disgregazione di molti nuclei familiari: non ci si parla più e non è infrequente che in casa, alla sera ad esempio, ogni membro della famiglia guardi da solo un differente programma televisivo anziché stare insieme a genitori, nonni e fratelli.
Se non ci si parla più e non si è correttamente guidati a stimare se stessi e il proprio corpo si può instaurare un pericoloso circolo vizioso, per cui ci si vede brutti da bambini e adolescenti, ci si disinteressa del proprio aspetto fisico, non si riesce ad avere amici con cui si stia bene insieme e allora ci si butta sul cibo come un’attività che si può svolgere in solitudine e che può dare un appagamento momentaneo dei sensi. Si finisce, perciò, per mangiare male e anche quando non si hanno né fame né necessità di nutrirsi, ma lo si fa solo per fare qualcosa, qualcosa che lì per lì può far sentire bene e che rappresenta per il soggetto con scarsa autostima un’attività che egli riesce a compiere senza difficoltà particolari.
La soluzione a questo problema è nell’educazione, nella famiglia, negli amici: tutti fattori chiamati a concorrere alla corretta crescita di ogni persona. Tutti possiedono dei talenti, ma è importante saperli scoprire, valorizzare e apprezzare grazie al supporto di chi ci è accanto e di chi ci vuole bene davvero.
Proposta “indecente”: spegniamo la televisione almeno una sera a settimana e parliamo con i nostri amici e familiari. Scopriremo che è molto meglio che guardare una fiction o una partita di calcio e che ci aiuta a migliorarci e apprezzarci.

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